Che i sommelier, nell’esercizio delle loro funzioni, indossino una divisa che li contraddistingue, con tanto di segni distintivi, magari semplicemente il logo di pertinenza di un’associazione, garanzia di preparazione qualificata, è un’evidenza palese.
La divisa, o l’uniforme, è per tante categorie di persone una dimostrazione di “appartenenza”: all’Arma dei Carabinieri, per esempio, o agli Alpini, al personale delle Linee Aeree come al personale viaggiante sui treni, i Pompieri, e persino gli autisti dell’autobus.
Divise sono previste anche in certe scuole, collegi, università, soprattutto inglesi, americani, giapponesi, e distinte per ognuno degli Istituti. Indossarle è spesso motivo di orgoglio.
Tutti gli chef, i camerieri di ristoranti e bar hanno un divisa, con delle caratteristiche visibili a seconda del grado e della mansione che svolgono.
E più è “elegante”, accurata, portata con signorilità, più favorevolmente noi avventori giudichiamo il locale.
E magari pure il conto della consumazione ne risente. Ma noi saremo lo stesso soddisfatti.
Anche i sommelier hanno la loro uniforme, un “dress code” d’ordinanza.
Sta scritto negli statuti delle organizzazioni, è contemplato nel contratto di ingaggio.
Ed è previsto nei corsi alberghieri.
La domanda è: una gonna fa la differenza tra le pari competenze e capacità dei colleghi?
La questione della gonna
È di questi giorni una notiziuola sulla contestazione di una “allieva” o meglio “iscritta” a un corso di sommelier che ha contestato l’obbligo di indossare la gonna come divisa professionale.
Si tratta di una trentaduenne ex modella e fotografa, di origini statunitensi, cresciuta in Giappone, Paese di origine della madre, e trasferitasi a Fermo nelle Marche per motivi sentimentali.
Sembra sia caduta dalle nuvole quando alle allieve della scuola frequentata è stato ricordato di indossare la divisa con la gonna già alla consegna dei diplomi.
Ha contestato, si è ribellata e poi si è dimessa.
«Costringere le donne a indossare la gonna è un atteggiamento sessista» e frutto di retaggio culturale, è stato il suo sdegno.
Beh, manco a sottolinearlo, i social si sono scatenati, per lo più a suo favore.
Non sarà che per “par condicio” ora i colleghi si vorranno presentare in gonna?
Ora io dico, se qualche organizzazione, qualunque sia, ha regolamentato anche l’aspetto esteriore degli aderenti e a te non va bene, o non ti iscrivi o lo contesti quando ci sei dentro proponendo un cambiamento. Se non ti ascoltano, te ne vai in pace.
Ma dico di più. A me, donna, antica contestatrice, femminista dalla nascita, non dà alcun fastidio che le donne indossino le gonne e gli uomini i pantaloni.
Anzi, mi danno più fastidio quelle donne che per far carriera si vestono “al maschile”, assumendo anche i tratti rudi, pensando che, se restano femminili, possono venir schiacciate o scalzate a parità di meriti professionali con gli uomini.
Di una sommelier che si presenta al mio tavolo io non guardo neanche se è in pantaloni o in gonna, io guardo il suo viso quando mi consiglia un vino, e le sue mani quando lo versa nei bicchieri. Forse mi colpisce quando porta la cravatta.
Ma se indossa una gonna, molto probabilmente i commensali maschi saranno più attratti dalle sue gambe, e mi arrischio a dire che il vino consigliato da costei sarà forse più apprezzato e amabile. C’è anche il trucco dell’immagine che arriva all’inconscio.
Ci sono donne, arcigne, legate agli stereotipi, che non ci stanno al gioco dell’aspetto estetico per “influenzare”.
E poi, si può fare le “svenevoli” anche in pantaloni e scarpe basse.
Di queste figure non mi fido quanto di uomini con il panciotto sotto la giacca di sommelier burberi e scostanti.
La professionalità emerge sempre, quando si ha competenza, uomo o donna, pantaloni o gonna.
Maura Sacher
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