Cresce in Italia e nel mondo l’interesse per i vitigni autoctoni. Interesse che va di pari passo con la scoperta o, meglio, la riscoperta di alcuni vitigni del passato che sembravano destinati all’oblìo. Questo il dato emerso a Bolzano in occasione di <Autochtona>, il Forum che ha visto confrontarsi tecnici, esperti e winemaker. L’Italia è il paese con più vitigni autoctoni al mondo: oltre 500 sono infatti le varietà registrate (alcune molte conosciute, altre in via d’estinzione) e coprono una superficie vitata pari al 75%. Sono uve nate e che si sono sviluppate in una precisa area geografica adattandosi al territorio che le ha ospitate.
Molti pensano che sia la Georgia, culla millenaria del vino, il paese più ricco di uve autoctone. Non è così ha spiegato il prof. Attilio Scienza, ordinario di Viticoltura all’Università di Milano. In Georgia oggi le varietà coltivate non sono più di trecento, mentre la nostra Penisola dispone di 535 varietà autoctone registrate e altre mille sono studiate presso i centri di ricerca. Il Portogallo ne vanta 40, la Romania 30, la Francia e la Spagna 15.
In Italia il vitigno più coltivato è il Sangiovese che rappresenta l’8% del vigneto totale, seguito da Glera (Prosecco), Montepulciano, Nebbiolo, Ribolla Gialla (storico vitigno autoctono che ha trovato in Friuli-Venezia Giulia la sua terra di elezione). Aglianico (varietà del Mezzogiorno d’Italia che dà origine al Taurasi in Campania e all’Aglianico del Vulture in Basilicata). Lagrein in Trentino Alto Adige. Ed ancora: il Verdicchio, il Cesanese, il Primitivo di Manduria, il Cannonau.
Secondo un’indagine di Nomisma, nell’Italia dei mille vitigni e territori i vini che nei prossimi anni saranno sulla cresta dell’onda sono proprio i vini da vitigni autoctoni (20%). Seguiti dai vini biologici (16,5%), dagli spumanti (13%), dai vini sostenibili (12%) e dai vini di specifici di un determinato territorio (12,5%).
“I vitigni autoctoni sono uno dei punti di forza del vino italiano nel mondo” ha dichiarato la Master of Wine britannica, autrice di molte pubblicazioni, Jancis Mary Robinson. “Il futuro – ha aggiunto – apparterrà ai vini indigeni anche perché il pubblico comincia a desiderare qualcosa di diverso dai soliti Cabernet e Chardonnay”. Anche per Monica Larner, autorevole firma italiana di The Wine Advocate, “la grande varietà di territori e denominazioni sarà, per l’Italia del vino, la carta vincente”.
Secondo Pier Luigi Gorgoni, coordinatore di “Autoctoni che passione” le tendenze di questa unicità dell’Italia enoica vanno in questa direzione.
Dalle varietà più ricercate con i vini tipici dell’Italia che spopolano nel mondo ai vitigni meno noti della Penisola gli autoctoni confermano una crescita costante.
In Trentino sono tre i vitigni autoctoni più coltivati: Teroldego, Marzemino, Nosiola. Ma accanto a questi troviamo altri vitigni un tempo coltivati in aree marginali, abbandonati dopo il flagello della fillossera. Ottocento, inizio Novecento. Oggi recuperati grazie all’attività di ricerca e valorizzazione messa a punto dall’Istituto Agrario di San Michele all’Adige. L’impulso di Gianpaolo Girardi, l’Indiana Jones dei vitigni perduti.
Vitigni che sono stati ampiamente descritti e illustrati nella pubblicazione “Antichi vitigni del Trentino” edita dalla Fondazione Edmund Mach e realizzata dai ricercatori Marco Stefanini e Tiziano Tomasi.
Una ricerca storica minuziosa, un recupero di memoria, un contributo prezioso e un esempio virtuoso per creare i vini del futuro. Ventitrè erano le vecchie varietà coltivate un tempo in provincia di Trento.
Biancaccia, Casetta, Corbera, Groppello di Revò, Lagarino, Maor, Negrara, Paolina, Pavana, Peverella, Rossara, Rossetta di montagna, Turca, Verdealbara, Vernaccia trentina. Ma anche Lambrusco a foglia frastagliata (Enantio), Marzemino, Nosiola, Schiava grossa, Teroldego, Franconia, Portoghese, Saint Laurent.
Grazie all’attività di recupero del Centro Ricerca e Innovazione della Fondazione Mach di San Michele sei di questi vitigni sono stati iscritti nel Catalogo nazionale delle varietà di uva e quindi ammessi alla coltivazione: Groppello di Revò, Casetta, Verdealbara, Lagarino, Paolina, Maor. “Dobbiamo ripartire dalle radici, il vero cervello della vite – ha commentato il prof. Attilio Scienza – con la consapevolezza che proprio dagli sconvolgimenti dei cambiamenti climatici si può, anzi si deve ripartire.
Pensiamo – ha aggiunto – alla fillosssera di fine Ottocento: allora fu un disastro, ma è proprio da quel flagello che è partita la rivoluzione della moderna viticoltura”. Parole sante.
(GIUSEPPE CASAGRANDE)
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