In questi tempi in cui parlare di vino è diventato più che altro un pretesto per gossip, polemiche o moralismo di varia natura, sui consumi o sulla criminalizzazione degli stessi avallata anche dal nuovo codice della strada, basterebbe partecipare ad una degustazione dai contenuti autentici per riportare il vino alla sua giusta dimensione.
Nel ventaglio di quelle proposte dall’evento “Nebbiolo nel Cuore” organizzato a Roma da Riserva Grande ad opera di Marco Cum, è andata in scena quella dedicata ai vini di Milva e Renato Fenocchio, una masterclass, così si chiamano oggi, dedicata a 3 cru dei loro Barbaresco.
L’occasione è andata ben oltre quella di poter assaggiare i loro ottimi vini e grazie alla presenza di Milva, i partecipanti hanno avuto modo di vivere una storia di vino che nella sua essenza, esprime tutto quello che un appassionato ricerca al di la di ogni tendenza del momento.
Lei è di Neive e con Renato che è di Barbaresco vivono da sempre un sano campanilismo. Marco Cum che insieme a Milva ha condotto la degustazione, l’ha proposta dopo essere stato colpito dai vini durante i lavori del panel d’assaggio per la GUIDA SUL NEBBIOLO e sui suoi territori d’eccellenza, realizzata per mezzo dell’omonima App “GUIDA NEBBIOLO” scaricabile gratuitamente.
Nel racconto di Milva che in vigna va da quando aveva 7 anni, gli inizi dell’avventura con Renato conosciuto agli albori degli anni 90 poco più che ventenni, quando le loro famiglie li avevano indirizzati a fare altro per risparmiarsi il lavoro della terra, ritenuto come la peggiore delle ipotesi possibili.
Di contro come ricorda lei stessa: noi invece abbiamo subito deciso che volevamo fare uva e vino senza prodotti di sintesi. Le nostre famiglie hanno detto che eravamo matti da legare, e che non avrebbero rischiato le loro aziende per le nostre idee, quindi noi abbiamo deciso di andare per la nostra strada – ma una strada in salita però perché – senza avere vigne, trattori, cantina e soldi, tra mutuo e cambiali 31 anni fa abbiamo comprato la prima vigna e il primo trattore.
Per i primi due anni abbiamo venduto uva alle altre cantine reinvestendo i soldi, mentre nel 2001abbiamo affittato un garage e vinificato le prime 1000 bottiglie, solo che non avevamo clienti e quindi sono andate tutte in regalo agli amici.
Da quegli esordi carichi di passione ai giorni nostri: Da li in questi anni siamo arrivati ad avere 6 ettari nel barbaresco, 4 in affitto dai miei genitori, e a fare 35 – 40mila bottiglie l’anno, numeri molto variabili soprattutto per il fatto che quando un vino non ci piace lo vendiamo sfuso.
Poi il suo racconto vira su aspetti più pratici di grande interesse per tutti in presenti: a lavorare in vigna siamo 6 persone, in cantina praticamente 1 persona. Tutti i lavori sulle 44000 piante vengono fatti a mano e le curiamo ciascuna dalle 18 alle 25 volte l’anno, soltanto per i grappoli occorrono 6 lavorazioni specifiche.
Siamo gli unici in zona che non utilizzano lavoratori stagionali, siamo noi 2 più 4 signori che lavorano con noi, di cui uno da 23 anni e gli altri da più di 12 e – con una punta di orgoglio – a detta anche dei nostri colleghi viticoltori di Barbaresco siamo la più bella squadra di Barbaresco e riusciamo ad avere uve e vigneti sani, quindi poi il resto vien da se.
La cantina di vinificazione è a Neive nel Cru Basarin mentre gli altri vigneti sono sparsi tra i comuni di Treiso e Barbaresco e: in tutte le vigne abbiamo delle centraline che oltre alle condizioni meteo misurano temperatura, umidità e la quantità di ossigeno sottoterra, importante per sapere la salute dello stato radicale. In questo modo non usiamo pesticidi e prodotti di sintesi, ma solo oli essenziali e una minima quantità di rame e zolfo.
Questo approccio oltre all’amore per il territorio ha motivazioni ben più importanti, che la stessa Milva racconta: il motivo per cui abbiamo detto no ai pesticidi è che mio marito era già stato intossicato da questi per la lavorazione delle pesche quando era bambino, con coma epatico di 3 giorni e quindi non può lavorare con prodotti convenzionali. Lo abbiamo scoperto perché stava sempre male ed è venuto fuori questo problema che aveva avuto da ragazzino.
Un altro motivo che li ha spinti su questa strada sempre dalle parole di Milva fu che: osservavamo che nella zona le persone di mezza età avevano spesso maturato tumori e Alzheimer, e anche che molti bambini avevano avuto problemi come la sindrome di Down e altro.
Abbiamo quindi fatto delle ricerche insieme a degli amici dell’Università Cattolica di Piacenza, che hanno evidenziato le correlazioni tra questi prodotti e queste malattie di cui ancora non si parlava, e di conseguenza abbiamo deciso di non usarli, non per il bio che ancora non era una pratica sviluppata o altro, ma perché in mancanza di studi approfonditi dell’epoca abbiamo pensato bisognasse fare così.
Un Atto di responsabilità anche verso le proprie figlie che: sono cresciute con noi in vigna giocando in una cesta da vendemmia che mi portavo dietro, visto che a causa degli investimenti per l’azienda non potevo pagare una baby-sitter e che quindi vedevano l’uva crescere, non mi andava poi di dirgli che non potevano mangiarle per via dei prodotti che venivano impiegati nella coltivazione.
Una consapevolezza maturata dall’esperienza diretta sul territorio che ha portato Renato e Milva ad intraprendere un grande lavoro di sperimentazione, che oggi è patrimonio di conoscenza disponibile per tutti: noi all’inizio pensavamo bastasse fare molta più mano d’opera, ad esempio per ridurre l’umidità sui grappoli facevamo un grande lavoro sull’apparato fogliare e una selezione dei grappoli per fare in modo che non si toccassero, ma purtroppo non bastava. Abbiamo fatto un sacco di sperimentazione ad esempio usando la bentonite, che è una forma di argilla nebulizzata sulle uve in modo da assorbire l’umidità per non far marcire le uve.
La seconda azienda che ha iniziato a produrre così è stata Gaja, anche loro avevano il nostro stesso interesse ma un’azienda di quella portata aveva tanti tipi di contatti e potenziale in più per sviluppare le ricerche. Sono arrivati a studiare modi alternativi per proteggere le uve, da qui è nato l’interesse dell’Università di Milano, dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, dell’Università di Tel Aviv.
Un ruolo fondamentale l’ha avuto l’agronomo di Gaja Giorgio Culasso, un grandissimo maestro che conosce il territorio in cui opera e con cui abbiamo partecipato insieme a Gaja ad una sperimentazione, in cui attraverso tentativi, abbiamo messo a punto strumenti come i primi oli essenziali di aglio e rosmarino, quello di ibisco che è molto efficace contro la peronospora e, ultimamente si sono messi addirittura a punto prodotti estratti dai gusci dei gamberetti, che ci permettono di fronteggiare diversi problemi della vigna.
Come molti presenti hanno osservato un approccio ben al di la del biologico, praticamente quasi da vini naturali, senza però sbandierarlo ai quattro venti utilizzandolo come leva di marketing per inseguire i trend del momento. Il risultato sono vini molto territoriali, esplosivi, puliti e qualitativamente di grande livello capaci di colpire immediatamente.
A tale riguardo Milva sottolinea: diciamo di si, noi abbiamo la certificazione bio su tutti i vini ma non la mettiamo nemmeno in etichetta anche perché, vendendo il 90% all’estero, gli importatori fanno comunque fare le loro analisi per stabilire se contengano residuali di pesticidi.
Per evitare contaminazioni, tutte le uve prodotte al confine con altri vigneti di altri produttori vengono vendute ad altre aziende. I primi,1, 2, 3, 4 filari, a seconda se l’annata è stata più o meno ventosa, perché i trattamenti si fanno per lo più in primavera estate quando c’è più vento.
Prima di imbottigliare facciamo fare l’analisi a 2 laboratori differenti per rilevare eventuali 537 residuali di pesticidi diversi, e imbottigliamo solo se non c’è nessuna traccia altrimenti lo vendiamo sfuso.
La scelta di non usare pesticidi comporta anche un grande lavoro in più che Milva illustra con un esempio pratico: A marzo passiamo diverse notti a cercare sottoterra i bruchi che mangiano le piante del nebbiolo. Nell’anno del covid, per esempio, abbiamo trovato 1940 di queste bestiacce, considerate che ognuna di loro mangia mediamente le gemme di 7 viti.
Quindi insieme a Marco Cum si sono affrontate le peculiarità dei differenti cru in degustazione a partire dal Rombone (Treiso), osservando come i vigneti di quella zona per via del terreno molto argilloso, sviluppino tannini e struttura che ricordano più un Barolo che un Barbaresco. La quota sabbiosa è lì presente in banchi sviluppati in altezza, a differenza delle altre vigne dove è minore e distribuita in strati più sottili.
L’idea produttiva aggiunge Milva: è di fare un vino che faccia piacere bere e come diceva anche Bruno Giacosa, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere per storie di vigna e di vendemmie: tra due bottiglie messe a tavola quella che finisce è la più buona.
Per questo in zona siamo sempre i primi a vendemmiare, cercando di mantenere una buona acidità, i profumi e un bel colore, e puntando quindi sulla freschezza cosa che insieme ai tannini ci consente di mantenere bassissimi i solfiti, che in tutti i nostri vini vanno tra i 38 e i 70 mg/l ben al di sotto dei 100 che potremmo utilizzare.
La degustazione inizia quindi con il Rombone 2019, il più immediato dei tre. Grande annata che si caratterizza per profondità, pulizia, e ricchezza del bouquet aromatico. Vino di grande eleganza che ha veramente tutto fino a sembrare quasi “piacione” senza cercare di esserlo.
Segue il 2018 sempre grande qualità ma un passetto indietro rispetto alla ’19, forse anche per motivi climatici. La produttrice la ricorda come una buona annata ma di grande lavoro, caratterizzata anche da una grandinata con selezione difficile dei grappoli, quindi di molta soddisfazione per il risultato ottenuto. Meno esuberante e più rigorosa, vino più delicato ed in equilibrio. Bellissimo vino da bere ora.
La 2016 invece dichiara ancora un enorme potenziale da sviluppare. Di grande pulizia ma ancora un po’ statica e sulle sue. Milva descrive l’annata come quelle di grande livello tipiche degli anni 80, prima della fase climatica di questi anni. Grande gusto e profondità ma tannino ancora da affinare.
Tra la degustazioni di un Cru e un altro Milva ci regala poi le sue esperienze dirette di vigna in merito alla relazione tra il terreno e le piante: Quello che notiamo noi è come si sviluppano le piante, ad esempio nel Cru Starderi i prodotti sono molto eleganti e pensiamo sia dovuto all’abbinamento calcare-sabbia, mentre per gli altri le differenze stanno per lo più nella conformazione dei cru, dalla loro esposizione e quindi da quante ore di sole ricevono. Dipende poi dal clone e bisognerebbe vedere a parità di cloni, lavorati dalla stessa persona e con lo stesso metodo. Per esperienza diretta familiare con i vigneti di mio padre che sono fianco a fianco alle nostre vigne, solo queste due cose nello stesso territorio danno origine a vini completamente diversi.
È poi la volta del Cru Starderi nelle annate, la prima vigna acquistata dalla coppia nel 1993, dai figli e nipoti, che se l’erano divisa, di un signore trasferitosi tanti anni fa a Torino per fare il Babiere. Una vigna di 66 anni dove le piante di Nebbiolo appartenenti al clone 111, affondano le proprie radici su un terreno misto calcare e sabbia a strati sottili
Lo Starderi 2019 è ancora più sorprendente del suo pari annata precedente, anche la quota di esuberanza qui si converte in pura eleganza, con un bellissimo floreale dominato dagli aromi dei petali di rosa. Grande equilibrio per un vino di grande finezza.
La 2016 rispetto al Rombone si presenta più aperta e pronta, e come Milva e Marco fanno notare, è qui che si vede la differenza e il peso del terroir sullo sviluppo di un vino.
Con la 2013 andiamo ancora più indietro incontrando un vino che pur potendo proseguire il suo viaggio nel tempo, appare per struttura, profilo olfattivo che richiama la viola e un tannino di piacevole rotondità, ottimo da bere ora e il migliore della batteria.
Prima dell’ultimo Cru in assaggio Milva tira le somme di quella che è la loro attività: All’inizio dissero a Renato che doveva cambiare lavoro perché andava avanti con il cortisone tutti i giorni e al massimo poteva durare 2 anni. Lui non potrebbe essere esposto alla polvere, al sole e a pesticidi e prodotti di sintesi, ma almeno quelli sono stati tolti. Con tutti i debiti e gli investimenti della vigna appena acquistata, io continuavo a fare l’architetto a Venezia e lui a fare i trattamenti per le altre aziende del territorio, non è stato facile.
Senza usare prodotti di sintesi, tante grandi aziende non riuscirebbero a fare vini come questi – che tutti i partecipanti hanno riconosciuto di grande qualità. Io mi occupo della parte bassa del lavoro ma sono molto contenta di quello che riusciamo a fare, perché mio marito è veramente bravo. Un elogio a Renato Fenocchio che anche Marco sottolinea ricordando una sua recente visita in Azienda, in cui traspariva tutto l’amore di Renato per il vino e per le sue creazioni.
Ultimo Cru in degustazione è il Basarin, una vigna su terreno composto in prevalenza da calcare, e che da vini di struttura più importante rispetto ai precedenti. Il vino che Renato ne produce lo ha dedicato a sua moglie chiamandolo con il suo nome.
In degustazione il Milva Barbaresco 2019 che è una riserva di 900 bottiglie nate da circa 770 viti. Vino di grande complessità dal carattere austero, ma impreziosito dai toni della vaniglia e dalla sensazione balsamica mentolata. In bocca rimane di grande freschezza con il frutto ben vivo che ingolosisce.
La 2016 preservando le caratteristiche del precedente si mostra più scura ed intensa, bellissime le note balsamiche e cinerine. La struttura è impegnativa, il sorso importante e godurioso impreziosito dal tannino arrotondato di grandissima fattura. Senza dubbio la bottiglia più pronta tra quelle assaggiate.
L’idea di fondo dei coniugi Fenocchio è quella di fare con il Rombone un Barbaresco più facile da bere, puntare più sull’eleganza con lo Starderi e sulla complessità con il Basarin. Questo oltre che per il terroir, anche grazie l’uso del legno diverso per tipologia e per durata dell’affinamento.
L’ultimo vino in chiusura è una chicca prodotta ancora dal vigneto Starderi, da piante del particolare Clone Rosè di Nebbiolo piantate nel ’58 Sinquanteut, anno che dà anche il nome al vino di cui Milva racconta la genesi:
58 è nato durante il primo lockdown quando avevamo molto più tempo da dedicare ai vigneti. Utilizzando pochi solfiti dobbiamo fare frequenti assaggi del vino in vasca e avevamo notato che il più piacevole alla beva, con quella nota di arancia candita, floreale e piccoli frutti rossi, in quel momento era quello dello Starderi, che aveva finito i travasi in vasca ed era pronto per essere messo in legno e diventare barbaresco. Mio marito allora ha deciso di imbottigliarne 2000 così com’era, che poi sono sparite immediatamente.
Rappresenta tutto quello che ci piace fare nel vino ed abbiamo deciso di tenerlo così com’è, senza nessun intervento, declassandolo a vino rosso. Solo acciaio, elegante e dai grandissimi profumi che esprimono tutto il carattere essenziale del nebbiolo.
A fine degustazione non si è potuto fare a meno di notare come il filo dell’eleganza leghi tutta la produzione di Renato e Milva Fenocchio, che con rese mai superiori ai 70 q.li per ettaro producono vini di terroir che risentono nettamente delle annata e dei suoli delle vigne.
Ma forse la cosa che è arrivata proprio a tutti i presenti, è tutto l’amore di Milva e Renato Fenocchio per la propria terra, per il vino e per il Nebbiolo.
Bruno Fulco
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