In questo tempo di vacanza, i milioni di italiani e di stranieri in giro per l’Italia, quando si recano in ristorante per il pasto, non sempre hanno per la testa di chiedere se gli ingredienti di quello proposto nel menù è “made in Italy”, per esempio un bel piatto di crostacei con una bella insalata di pomodori.
Come quando si va a fare la spesa in un supermercato, a quanti passa per la mente di soffermarsi a leggere fino in fondo le etichette della merce, cercando la provenienza del prodotto? Magnifici quei porri, provengono dalla Germania. Stupendi quei peperoni e quei pomodori così sodi e di grandezza perfetta, provengono dall’Olanda. Fragole, dal Marocco o dalla Spagna, come le ciliegie, e l’uva primizia, persino dal Perù o dal Sud Africa.
E chi fa caso a rinomate ditte di pasta secca con l’evidenza di “fatta in Italia” senza continuare a leggere “con grani provenienti anche da paesi non Ue” e cioè dal Canada, dall’Australia e da qualche altro paese dell’Est?
Giustamente è stata emessa a livello comunitario una serie di direttive, seppur i difensori del Made in Italy vi abbiano riscontrato delle ambiguità a danno delle nostre produzioni nazionali. Tuttavia l’attuale Ministro all’Agricoltura, Gian Marco Centinaio, per sua sensibilità alla questione delle contraffazioni e dell’«italian sounding», accogliendo le istanze della Coldiretti e dei consorzi dei marchi protetti, da anni in prima linea nella difesa del riconoscimento internazionale dei nostri prodotti, ha fatto approvare l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti, onde consentire scelte di acquisto consapevoli, contro gli inganni dei prodotti stranieri spacciati per Made in Italy.
L’etichetta vuol dire trasparenza, deve essere descritta tutta la filiera.
«Noi vogliamo che sia il consumatore a scegliere, lui deve sapere da dove viene il prodotto che sta per scegliere, può consumare cinese o giapponese se lo vuole, importante che sia scritto in chiaro», e pure la possibilità di conoscere la provenienza della frutta impiegata in succhi, conserve o marmellate, dei legumi in scatola o della carne utilizzata per salami e prosciutti, altro tasto dolente. Non basta venir a sapere che il luogo di trasformazione sia una fabbrica sul suolo italiano per rendere nazionale il prodotto.
Ciò è ormai a regime, con evidente aggravio di costi per le aziende, tuttavia non basta. Si continua a battere il tasto sulla consapevolezza dei connazionali verso il cibo nostrano, per innumerevoli ragioni, ma quando si va a fare la spesa ci si accorge che rari clienti si soffermano a leggere le etichette da cima a fondo, davanti e dietro, con pervicacia e pazienza. Sembra conti di più il prezzo, l’offerta, il risparmio. Più il portafoglio che la salute.
Solo gli svariati gastro-turisti si approcciano al “fatto in Italia, anzi al “fatto in loco” (come garantiscono piccoli e grandi ristoranti delle località turistiche, di mare e di montagna); la gran massa di stranieri, messo piede sul suolo italico in viaggio culturale, ci danno credito in partenza, perché italiani, anche se – andando per trattorie con menu a buon prezzo – gustano gioiosamente e inconsapevolmente un pasto all’italiana in cui per gli spaghetti sono adoperate farine ungheresi e il ragù è composto con carni balcaniche e il sugo di pomodoro viene da barattoli cinesi.
Conclusione: se il consumatore italiano o straniero, per la fretta, la convinzione di risparmiare, la superficialità, il menefreghismo, non opta la sua scelta di cibarie verso il garantito Made in Italy, obiettivamente nemmeno tante energie da parte degli imprenditori vengono premiate.
Maura Sacher
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