Come per tantissime ricette di pietanze locali e regionali di lunga tradizione, anche per la jota non si può indicare un “autore” specifico né un ristorante che ne abbia l’esclusiva, giacché la storia è prettamente casalinga e le varianti poche.
Prima di tutto, immagino ci si chiede il significato del nome “jota”, proprio con la “j” (la “i” lunga” o “j / iota” lettera dell’alfabeto greco). L’etimologia del nome è controversa. In un dizionario, leggo che la parola potrebbe avere riferimento al fatto che la ‘iota’ è la più semplice lettera dell’alfabeto greco e nel linguaggio comune dire <uno iota> significa “un bel niente”, (come nella frase “Neppure uno iota o un apice della legge passerà”, Matteo, V, 18). E nulla osterebbe, in secondo luogo, al fatto che il termine possa derivare dal tardo latino «jutta», brodaglia, beverone, che parrebbe a sua volta originare da una radice celtica, che lo studioso Gianni Pinguentini nel suo “Dizionario storico etimologico fraseologico del dialetto triestino” (1954) indica molto probabile. Ad ogni modo, dalle parti del golfo giuliano le contaminazioni lessicali, romane,
celtiche, greche, slave, germaniche, francesi, dalla toponomastica alla culinaria, sono infinite.
Tale minestrone, che nasce come un miscuglio di “avanzi” delle cucine povere, fatto a brodo acquoso, in pratica ha due esclusivi elementi di base: fagioli stufati e cappucci acidi, cioè marinati sotto sale, a loro volta stufati, cucinati separatamente, poi ribolliti assieme, con l’aggiunta di un soffritto di farina.
Oltre a ciò ci sono altri ingredienti che servono a insaporire e amalgamare i gusti.
Della jota c’è traccia nell’area goriziana, triestina, istriana da almeno 400 anni, mentre pare che fin dai tempi di Carlo Magno si conoscesse il modo di conservare tale verdura nel sale fino a farla fermentare e inacidire.
Nel corso dei secoli, via via che si radicava anche nel popolino l’idea dell’<arte culinaria>, esaltata sulle tavole dei nobili e degli abbienti, anche nelle cucine di casa e nelle bettole si cominciarono ad usare aromi e sapori.
Così entrarono nel pentolone della jota: aglio, alloro, comino, luganighe, avanzi di pancetta e di prosciutto, costine di maiale o di vitello, e anche patate lessate a parte e poi schiacciate. Il tutto coperto da tanta acqua, consumata a fuoco lento, per una mezz’ora abbondante, mescolando più volte per l’amalgama dell’insieme, finché il colore del brodo è di un bel bruno.
Note.
Il cavolo cappuccio, affettato a listarelle e fatto macerare anche con aggiunta di aceto e/o di vino bianco in botticelle di legno, viene venduto in contenitori di latta, da cui il negoziante pesca la quantità desiderata dal cliente. A casa bisogna sciacquare bene la verdura sotto l’acqua corrente, prima di metterla a cuocere.
Nell’area germanica dove si consumano i “crauti” (“capuzi garbi” è il caparbio equivalente triestino), c’è usanza di aggiungere della birra alla prima cottura, birra che fungerebbe come il pizzico di bicarbonato per ‘ammorbidire’ e rendere più digeribile la verdura.
Inoltre, la tradizione più antica riduce ad un rituale la cottura dei cappucci: si deve ricoprirli di acqua cinque volte. È assolutamente un ottimo consiglio, da seguire, anche per mangiarli come solo contorno (sempre tradizione triestina a Capodanno).
Maura Sacher
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