I Viaggi di Graspo

In Val d’Ossola da Marco Garrone

In Val d’Ossola da Marco Garrone Il Piemonte non è solo Barolo e Babaresco, infatti un pò più a Nord, esistono due altre grandi espressioni del Nebbiolo,

In Val d’Ossola da Marco Garrone

Il Piemonte non è solo Barolo e Babaresco, infatti un pò più a Nord, esistono due altre grandi espressioni del Nebbiolo, più specificatamente Spanna, spesso accumunate tra loro ma in effetti profondamente diverse, consacrate dalla DOCG, che sono Ghemme e Gattinara: 

due zone vitivinicole, separate dal fiume Sesia e caratterizzate da suoli enormemente diversi, che vantano origini antiche note fin dal tempo dei romani, tanto che si narra che Ghemme, originariamente Agamiun, avesse come effige della città un grappolo e una spiga di grano. 

Fama che perdurò nei secoli tanto che nel XV secolo Francesco Sforza ne acquistò ben 25 palustre (circa 20.000 bottiglie). 

Ma ciò che ha stuzzicato il nostro interesse si trova ancora più a Nord, nell’estremo lembo settentrionale che si incastra tra i cantoni svizzeri del Vallese e del Ticino; ed è qui che incontriamo una delle espressioni meno conosciute di questo straordinario vitigno che si è conservata in uno scrigno dove il tempo sembra essersi fermato: i vini della Val d’Ossola, la cui DOC vede la nascita nel 2009.

La storia vitivinicola di questo territorio ha visto il susseguirsi di alterne vicende che ne hanno segnato il destino, ma non sempre ciò che sembra essere inizialmente un progresso si rivela poi tale e viceversa. 

A segnare in maniera indelebile questa valle furono tre grandi eventi. Siamo alla fine dell’800 e tutto il terreno coltivabile è vitato, parliamo di quasi 1000 ettari di vigneto, distesi sui pendii esposti a sud, su terrazzamenti spesso sostenuti da muretti a secco. 

La viticoltura alle soglie del nuovo secolo è la colonna portante di queste comunità montane, basti pensare che questo era l’unico territorio all’epoca del Ducato di Milano ad avere la possibilità di esportare vino, ma tutto stava per cambiare. 

Nel 1895 i governi di Italia e Svizzera stipulano un trattato per la realizzazione di una linea ferroviaria per collegare la Val d’Ossola alla alta valle del Rodano e per la creazione del traforo del Sempione. 

La ferrovia portò l’industrializzazione e, con essa, diverse opportunità di lavoro, il progresso si faceva fisicamente strada attraversando anche le montagne.

I nuovi posti di lavoro indussero gli abitanti di queste valli ad abbandonare le proprie case per inseguire il sogno di una vita migliore e meno precaria: è l’inizio dello spopolamento di queste valli e della conseguente drastica diminuzione dei terreni vitati che vengono lasciati all’incuria.

 Caso vuole che questi siano anche gli anni dell’avvento della fillossera che, laddove il progresso non fosse stato leva sufficiente, finisce l’opera di convincimento o spinge i viticoltori a cercare fortuna altrove. 

In meno di quarant’anni si passo da quasi 1000 ettari di terreno vitato ad appena una cinquantina. 

La produzione di vino diventa per consumo famigliare e con questa radicale inversione di marcia anche il know-how per la coltivazione e la produzione di vino atto al commercio viene quasi irrimediabilmente perduto. 

E il tempo si ferma. A questo punto della storia che quella che sembra una catena di eventi destinati a portare alla scomparsa di una tradizione e con essa di tutta sua storia si spezza per rivelarsi essere quello scrigno di muto silenzio che preserverà questi luoghi dall’avvento di futuro progresso.  

Val d’Ossola Com’è strano a volte il destino. 

Senza quello stesso spopolamento chissà che fine avrebbero fatto questi vigneti. 

Non essere di grande interesse commerciale negli anni che segnarono l’avvento della viticoltura moderna in forma massiccia, l’essere per un attimo usciti dal mercato su larga scala, ha probabilmente evitato che ciò che era sopravvissuto alla fillossera, non venisse estirpato e sostituito con altri vitigni maggiormente richiesti e remunerativi in quegli anni. 

Lo stesso Veronelli nel passare di qui venne ad affermare: “Bel vino, perdio, rosso rubino; secco con piacevole fondo acidulo; grana fine e scorrevole; corpo lieve ma elegante. 

Fino a quando?” Quasi a sigillare con questa frase il rischio di essere travolti dalle inesorabili leggi del mercato. 

Se tutto questo fosse accaduto e se tutto ciò che si è salvato fosse andato perduto sarebbe stato veramente un peccato. 

E’ per questo motivo che quando mi sono trovata a camminare con Marco Garrone tra le sue viti, in fondo quel mancato progresso ho sentito di doverlo ringraziare. 

Qui si possono ancora trovare esemplari ultracentenari a piede franco, allevati secondo l’antico sistema locale, la “Toppia” come lo chiamano qui, una tipologia di pergola sostenuta da pali di castagno e da arcaiche strutture in pietra. 

Questo sistema, ci racconta Marco, nonostante gli alti costi di manutenzione sta rivivendo una seconda giovinezza perché bene si presta alle condizioni climatiche in evoluzione offrendo maggior ombreggiatura ai grappoli durante la stagione estiva ma anche protezione dalle gelate invernali. 

Venivano usati i rami dei salici per legare le viti e non a caso in questi vigneti sono sempre presenti. 

Il sesto d’impianto permette la coltivazione di orticole tra un filare e l’altro, Tutto si svolge manualmente, qui di meccanizzazione manco a parlarne. 

E’ tra questi vigneti che possiamo trovare il Prunent, espressione ossolana del Nebbiolo, vitigno che compare per la prima volta con questo nome nel 1309 in un lascito testamentario, che ha attraversato i secoli e che ora si sta riprendendo il suo posto nel panorama vitivinicolo italiano. 

Ma se non mi sbaglio all’inizio di questa storia abbiamo parlato di tre eventi fondamentali e a conti fatti ne manca ancora uno. 

Il terzo evento assume le sembianze della visione di un uomo e della sua famiglia che fin dal 1920 sono rimasti a custodire i segreti della produzione vitivinicola di questo territorio. 

Quando le abitudini al consumo di vino cambiarono, i contadini della valle si ritrovarono con le cantine piene di vino che nessuno avrebbe bevuto senza sapere cosa farne. 

La famiglia Garrone decide di acquistarne le uve. Sono 9 ettari di terreno vitato coltivate da circa 40 proprietari, un lavoro immane ma che permette di conservare il vitato rimasto mantenendo una attenzione elevatissima sul controllo di qualità della materia prima. 

Cantina Garrone ha rilanciato la tradizione del vino d’Ossola declinandola al presente e il tempo torna a scorrere anche in questa valle incantata.  

Il viaggio continua.. 

Marta De Toni Foto di Marta De Toni
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