Bursôn, nome curioso per un vino. Assaggio, non è un vino che si trova facilmente e non mi faccio scappare l’occasione. Abituata a vini di collina, il prodotto di questo vitigno di pianura mi incuriosisce. Bursôn, un bel nome però, un nome che affonda le radici nella terra umida, negli umori di una popolazione laboriosa, caparbia ma che, al contrario di altri, sa godersi la vita.
Ha carattere questo vino. È robusto. Non poteva essere altrimenti. La sua storia documentata parte con l’impianto del primo vigneto nel 1956. Tutto era cominciato appena qualche anno prima, quando Antonio Longanesi, detto il Bursôn, trovò ai margini della sua proprietà a Bagnacavallo, un vitigno autoctono, rustico, inselvatichito ma dagli acini zuccherini e resistenti, Una produzione minima all’inizio, fatta assaggiare agli amici.
Ne ha fatta di strada questo vino rustico, una strada sicuramente non facile, costruita passo dopo passo in una terra dove il Sangiovese regnava incontrastato. Ma Longanesi aveva visto lungo. Dopo decenni di prove di vinificazione, di studi, alla fine degli anni ’90, il Bursôn ha iniziato la sua ascesa. Quel grappolo dagli acini scuri, si è “lasciato leggere” da viticoltori ed enologi che ne hanno individuato il giusto periodo di maturazione e fatto, della sua tendenza ad appassire sulla pianta resistendo alla marcescenza, il suo punto di forza giocando, appunto, su quella nota dolce.
È questa dimensione territoriale, questo legame intimo con la sua terra e con le sue genti, che scorre nelle note di questo vino più che in altri. Si percepisce al primo assaggio. E come tutti i vini di Romagna, fa simpatia: forte ma gioviale, scontroso ma dolce. Per questo suo carattere il Bursôn sta conquistando i mercati, per questo ha valicato le Alpi. E grazie al consorzio di Bagnacavallo oggi il Bursôn è davvero un grande vino di pianura. Un altro piccolo grande pezzo dell’alcolico biglietto da visita che il mondo ci invidia.
Roberta Capanni
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