La lunga pigrizia vitivinicola del Lazio è ormai un lontano ricordo, e tante sono le realtà che negli ultimi decenni sono sorte affiancando le Aziende storiche sulla strada della ricerca assoluta della qualità. Un percorso che coraggiosamente ha deciso nella maggior parte dei casi di puntare sull’autoctono e sui vitigni presenti storicamente sul territorio.
Tra le zone più virtuose che si segnalano in questa rinascita enologica senza dubbio bisogna annoverare la parte nord-occidentale del Lazio, meglio nota agli amanti dell’enogastronomia come la Tuscia Viterbese, un piccolo scrigno pieno di sorprese in cui si trova anche Tenuta La Pazzaglia.
L’Azienda è una realtà di circa 40 ettari situata a Castiglione in Teverina sul confine Umbro – Toscano nella valle del Tevere e poco distante da gioielli storico – architettonici come Orvieto, Viterbo e Civita di Bagnoreggio. Nasca come realtà familiare nel 1992 e nel 2009 le redini dell’Azienda passano in mano alle sorelle Laura e Maria Teresa Verdecchia. Mentre Laura si occupa della gestione aziendale, Maria Teresa provvede a seguire l’intera filiera produttiva fino alla commercializzazione.
Come per tutte le Aziende Laziali che si stanno distinguendo per qualità, anche la scelta delle sorelle Verdecchia è stata quella di valorizzare al massimo i vitigni del territorio. Nel loro caso il vitigno a bacca bianca non poteva essere che il Grechetto, varietà un tempo abbastanza snobbata e presa sottogamba, ma che grazie alla scelta di un percorso identitario da parte delle giovani Aziende del territorio, sta sviluppando le sue potenzialità ottenendo grandi risultati e raccogliendo sempre più estimatori.
A questo vitigno Tenuta la Pazzaglia ha dedicato la maggior parte del suo vigneto, scegliendo attentamente i cloni più adatti da utilizzare per il loro progetto di vino. La qualità delle uve da portare in cantina è il punto di arrivo della gestione agronomica o il primo per fare grandi vini, ma a seconda di come si guardi la questione l’Azienda opera utilizzando solamente trattamenti di rame e zolfo, senza uso di diserbanti e prodotti di sintesi.
In aiuto di questa conduzione in vigna interviene la ricchezza dei suoli vulcanici non distanti dai calanchi, suggestivo fenomeno erosivo che caratterizza il paesaggio. Il risultato sono gli splendidi vini da Grechetto ormai un must tra gli amanti del vitigno come il “Poggio Triale”, il “109” e “Miadimia” premiati dalle maggiori guide di settore. A Laura e Maria Teresa abbiamo avuto il piacere di rivolgere qualche domanda sulla loro realtà:
Due sorelle che si occupano di aspetti diversi. La divisione delle competenze nelle scelte è netta e insindacabile, oppure c’è margine di discussione?
La divisione delle competenze tra di noi è certamente ben definita, ognuna di noi si occupa di aree specifiche in cui ha maggiore esperienza ed inclinazione caratteriale. Tuttavia, anche se le responsabilità sono separate, crediamo che il dialogo e la possibilità di confronto siano fondamentali. La flessibilità ed il rispetto reciproco sono alla base del buon andamento dell’azienda. In generale, dunque, pur avendo ognuna delle competenze ben definite, un buon dialogo può essere utile per discutere e rivedere insieme le decisioni, sempre nel rispetto dei ruoli per il raggiungimento di una visione comune.
Come nasce l’avventura del vino della Famiglia Verdecchia nel 1990?
Nasce dalla passione di nostro padre Randolfo per la Terra ed il sogno di nostra nonna Teresa di poter riavere le grandi distese di vigne che la guerra Le aveva portato via nel 1945 insieme alla famiglia. Maria Teresa ed io ci siamo appassionate successivamente, quando terminando gli studi iniziavamo ad avere la nostra visione del progetto…in questo nostro padre è stato molto bravo, ha lasciato che potessimo esprimere le nostre idee fino a lasciarci nel 2009 la completa gestione dell’azienda.
La vostra popolarità negli ultimi anni, specialmente tra gli amanti del grechetto, ha raggiunto livelli elevati nonostante nessuna vistosa operazione commerciale o partnership. Allora è vero che basta solamente fare i vini bene oppure cosa altro serve?
Ǫuesta è una domanda interessante, perché mette in luce un aspetto molto importante del nostro lavoro. E’ vero che negli ultimi anni abbiamo visto una crescita significativa nella nostra popolarità, soprattutto tra gli amanti del grechetto, e questo ci rende molto felici. Tuttavia dietro a questa “popolarità naturale” c’è sicuramente molto più che la sola qualità del prodotto.
Sicuramente il cuore del nostro successo è la qualità del vino, ma non credo che basti solo questo… un altro aspetto che ha contribuito alla nostra crescita è sicuramente la PASSIONE che mettiamo in ogni fase della produzione: dal lavoro in vigna alla vinificazione, alla promozione del prodotto finale. Oltre alla qualità pensiamo che ci sia un aspetto legato alla nostra autenticità, alla voglia di raccontare e trasmettere una storia vera e personale attraverso il vino.
Anche senza una strategia commerciale tradizionale o di grandi partnership, abbiamo trovato un nostro canale grazie al passaparola, alla credibilità che siamo riusciti a costruire nel tempo e a un lavoro molto più sottile, fatto di relazioni sane con i nostri consumatori, ristoratori ed appassionati. In sostanza sì, il vino deve essere buono, ma la passione, l’autenticità e la capacità di far emergere la propria storia e filosofia aziendale sono altrettanto importanti.
Un vitigno di grande potenzialità che il vostro lavoro nobilita interpretandolo nei minimi particolari come la scelta dei cloni. Ǫuale sono le principali differenze tra il clone G5 e G109?
La scelta dei cloni e soprattutto quella di vinificarli separatamente è stata senza dubbio vincente; siamo l’unica azienda che ha scelto di far emergere le differenze nei due cloni, il G5 ed il G109 che hanno caratteristiche ben diverse pur essendo entrambi Grechetto.
Il clone G5 noto per la sua precocità di maturazione tende a dare uve con una buona acidità, un profumo aromatico più fresco e fruttato, che ci porta ad ottenere un vino che esprima freschezza e la mineralità tipica del nostro territorio. E’ un clone che ci permette di produrre un Grechetto più elegante e con un ottimo potenziale di invecchiamento, con una componente aromatica che si fa più fine e più marcata nel tempo.
Il Clone G109 è un clone che ha una resistenza maggiore alle malattie ed alle avversità climatiche, le cui uve tendono ad avere note più fruttate e mature con una maggiore complessità che lo porta ad avere una prontezza diversa.
Entrambi sono fondamentali per la nostra azienda e li utilizziamo sia in purezza che per creare differenti interpretazioni dello stesso vitigno, a seconda dell’annata e delle scelte di vinificazione.
A che punto siamo rispetto all’espressione di questo vitigno? Ritiene che abbia già sviluppato il massimo del suo potenziale oppure c’è da lavorarci ancora, e nel caso su quali aspetti?
Assolutamente c’è sempre da migliorarsi e c’è sempre la possibilità di sperimentare su nuovi terreni, a diverse altitudini, con differenti tecniche di vinificazione.
Anche il Merlot si esprime su alti livelli qualitativi come nel Montijone. Ǫual è il ruolo della natura dei suoli sulla riuscita dei vostri vini?
Il Merlot è un vitigno che ha avuto nel tempo una grande adattabilità a vari territori, inevitabilmente la natura dei suoli ed il porta innesto sono cruciali per ottenere un prodotto di alto livello, nella nostra zona i suoli sono una combinazione di terreni argillosi e calcarei che sono particolarmente favorevoli per il MERLOT. Crediamo pertanto che il suolo, insieme alla gestione agronomica, sia fondamentale per la personalità e la qualità del vino. E’ la combinazione perfetta tra la natura e l’intervento umano, dove cerchiamo di intervenire il meno possibile, rispettando l’ambiente per ottenere un vino che sia davvero espressione del nostro territorio e che vada a rendere riconoscibile il nostro merlot rispetto a mille altri.
Nella grande crescita della viticoltura laziale la Tuscia sta recitando un ruolo di grande rilievo. Secondo voi come mai solo da qualche anno gli appassionati stanno rivolgendo la loro attenzione a questo territorio e dove bisogna agire per svilupparne il potenziale?
La Tuscia è un territorio straordinario ha storia, arte, enogastronomia, fino a qualche anno fa poco valorizzato forse perché si tendeva a guardare maggiormente zone storicamente più note, come la vicina Toscana, il Piemonte. Oggi la Tuscia ha tutte le carte per poter emergere ed il primo cambiamento è stato sicuramente quello generazionale per cui le stesse aziende hanno iniziato a lavorare in modo più sostenibile e con una forte identità territoriale. Attualmente la Tuscia sta raccogliendo i frutti di un nuovo interesse da parte dei consumatori verso vini autentici ed identitari che li porta a scoprire il fascino di territori meno conosciuti e ricchi di potenziale e che soprattutto stanno emergendo per la loro identità enologica.
Sicuramente per lo sviluppo del potenziale bisogna lavorare su più fronti:
– Valorizzare i vitigni autoctoni e le caratteristiche geologiche del territorio creando così una identità forte
– Investire in comunicazione e marketing
– Collaborare tra produttori per aumentare la visibilità della zona e rafforzare il concetto di una “Denominazione” forte e riconoscibile.
– Investire in turismo enogastronomico
– Educare e formare i consumatori e gli operatori del settore su quali potenzialità il territorio offre.
Ǫuale sono i punti cardine della filosofia intorno al quale ruota il lavoro in vigna?
La nostra filosofia in vigna è un mix di rispetto per la natura, sostenibilità, attenzione al dettaglio e equilibrio tra tradizione ed innovazione. Il lavoro in vigna è la base per ottenere un vino di qualità ed ogni anno lavoriamo come custodi del territorio, per migliorare e perfezionare il nostro approccio alla terra, consapevoli che ogni fase del lavoro dalla preparazione del terreno all’imbottigliamento è fondamentale per creare un prodotto autentico di alto livello qualitativo.
Ad oggi le certificazioni bio, biodinamico ecc. sono più un valore aggiunto o una leva di marketing?
Domanda difficile…. Ogni azienda adotta le proprie scelte, in base anche all’azienda che conduce…… è innegabile che oggi ci sia una domanda crescente di vini certificati e sostenibili,questo ha fatto sì che anche alcuni produttori si siano mossi verso queste certificazioni come un modo per posizionarsi meglio sul mercato, ma la reale differenza sta nel fatto che per noi non si tratta solo di un marchio o di una etichetta da sfoggiare, ma di una scelta radicale e coerente che guida ogni decisione in vigna e cantina; un vino veramente buono a nostro avviso non può prescindere da un ambiente sano e fertile, questo è il nostro impegno, un impegno quotidiano a fare le cose nel miglior modo possibile rispettando la terra e i suoi cicli naturali.
In che percentuale la vostra produzione prende la via dei mercati esteri? L’utilizzo del tappo Stelvin indica una maggiore attenzione alle piazze internazionali o semplicemente lo Stelvin è la migliore scelta da fare oggi?
Per noi l’utilizzo del tappo Stelvin non è legato alla ricerca di un particolare appeal nei mercati esteri, ma alla convinzione che rappresenti attualmente la scelta migliore per garantire che i nostri vini possano mantenere inalterata la loro qualità nel tempo ed essere goduti dai consumatori finali, senza preoccupazioni legate a problematiche di stoccaggio o trasporto.
La presenza sui mercati esteri è una naturale conseguenza del nostro impegno e del valore dei nostri vini riconosciuto da consumatori e distributori esteri.
Fare il vino è stata più una conseguenza dell’amore verso questo territorio oppure avreste comunque fatto i viticoltori in un’altra realtà?
Beh, considerando che avevamo già iniziato a Mentana, nostra terra d’origine, credo che avremmo comunque scelto questa vita.
Il viticoltore non è una professione, è un modo di vivere un po’ come l’agricoltura in generale… é una scelta di vita che spesso ha radici profonde nel contesto in cui si è nati e cresciuti… sicuramente in un’altra realtà il nostro approccio sarebbe stato diverso…. Non lo sapremo mai perché amiamo ciò che viviamo oggi quindi… perché cambiare?
Bruno Fulco
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