Nella Repubblica popolare cinese sette persone su dieci della classe medio alta non conoscono i prodotti italiani. I risultati nell’indagine dell’Osservatorio Paesi terzi di Business Strategies condotta lo scorso giugno da Nomisma Wine Monitor.
Doccia fredda per il made in Italy: in Cina pochi lo conoscono. È la Ferrari (18 per cento) il prodotto/brand di gran lunga più conosciuto dall’upper-class cinese, seguito da pasta (10 per cento), Gucci (9 per cento), Barolo e Fiat al 5 e Armani al 4 per cento. Purtroppo quasi sette intervistati su dieci delle metropoli cinesi non sono in grado di citare alcun simbolo del made in Italy tra cibo, vino, moda, arredo e auto.
Lo rivela un estratto dell’indagine dell’Osservatorio Paesi terzi di Business Strategies sul posizionamento del made in Italy in Cina condotta lo scorso giugno da Nomisma Wine Monitor su un campione di 2 mila cittadini dal reddito medio-alto residenti a Pechino, Shanghai, Canton e Hong Kong. Un gap di conoscenza notevole che salva soltanto il marchio del cavallino di Maranello con una doppia cifra.
“La missione in Cina del ministro Di Maio di questi giorni – ha detto la Ceo di Business Strategies, Silvana Ballotta – riporta l’attenzione sulla necessità di ancorare la promozione e la conoscenza del made in Italy su fatti concreti e non su annunci fine a se stessi”. Insomma, non è tempo più di chiacchiere perché la Cina è un vero bacino potenziale dei nostri prodotti e servizi, e sarà il mercato di riferimento per i prossimi decenni.
Risulta interessante la percezione che i 100 milioni di “nuovi ricchi” e tante altre decine di milioni che si stanno avvicinando alla classe media (economica e culturale) in Cina, vorrebbero acquistare prodotti realmente made in Italy, ma la maggior parte di questi prodotti a oggi non sono disponibili.
Del resto il peso dell’Italia sul totale delle importazioni cinesi è ancora minimo: con un valore di 18 miliardi di euro, il made in Italy vale infatti solo l’1 per cento del totale delle importazioni cinesi e occupa il 22° posto nella classifica dei Paesi fornitori. Una quota di mercato che si abbassa ancora di più se si considera il solo l’import agroalimentare, allo 0,5 per cento.
Per conquistare il mercato del Dragone occorre mettere in campo delle strategie per aumentare l’offerta di quei prodotti che oggi appaiono come settori chiave del mercato locale: ristorazione, distribuzione di prodotti alimentari, automobili e moda. E bisogna muoversi speditamente, guadagnandosi la fiducia dei cinesi, soprattutto rivolgendosi alle periferie del Paese.
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