Ci sono periodi dell’anno in cui non si ha tempo di leggere tutti i c.s. o i quotidiani per intero, e altri momenti in cui mancano notizie e allora capita di andare a riguardare quello che è stato tralasciato.
Nel mese di marzo sono circolati uno dietro l’altro degli annunci sul caffè italiano candidato al riconoscimento UNESCO a patrimonio culturale immateriale dell’umanità: i primi euforici sul dato scontato, gli ultimi speranzosi per il futuro.
Veniva divulgata la candidatura del «rito del caffè espresso italiano tradizionale», ma a pochi giorni dal termine per l’invio della pratica agli uffici competenti, il ministro PAAF Stefano Patuanelli annunciava la presentazione di due candidature.
Il momento storico era alquanto delicato, era il tempo in cui era stata decretata una stretta, causa Covid, alla frequentazione di locali pubblici.
Dare risalto al Caffè Unesco poteva sembrare una beffa ai molti italiani che non avevano più la gioia di gustarsi l’espresso in tazzina, servito sulla porta in un insulso contenitore di carta o cartone o plastica.
Ed era una beffa pure per i clienti dello storico Caffè Gambrinus di Napoli, che voleva proprio chiudere i battenti, nella disperazione di non poter servire la deliziosa bevanda ai tavolini dei begli ambienti interni né al bancone, accompagnata dall’immancabile cornetto!
Oggi, mentre sorbivo il mio caffettino di mezza mattina, pesco nel cumulo di vecchi giornali che ancora non avevo buttato perché non ancora letti, un quotidiano della fine di maggio.
Ed ho capito perché lo conservavo.
L’attenzione cade sul titolo a tutta pagina “Braccio di ferro tra Trieste e Napoli per il titolo di città simbolo del caffè”. Nell’occhiello: “De Luca sfida gli «amici giuliani» nella corsa per il riconoscimento Unesco”.
In pratica, un’esternazione su facebook del Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, aveva acceso la “miccia”, soprattutto con la frase «chiarito che Trieste è nel cuore degli Italiani, se volete bere una tazza di caffè scendete a sud di Roma».
Nell’articolo era spiegata bene la vicenda. E sono riportati i commenti degli “addetti ai lavori”, stante anche che la località giuliana organizza da tempo la Trieste Espresso Expo, la più grande fiera nel comparto.
Insomma, alla candidatura del «rito del caffè espresso italiano tradizionale», presentata già nel 2019, si era affiancata quella della «cultura del caffè espresso napoletano».
La prima, patrocinata dall’omonimo Consorzio trevigiano di tutela, si concentrava sull’importanza del consumo della bevanda come rito quotidiano, divenuto simbolo di un’intera nazione.
La seconda, promossa dalla Regione Campania, faceva leva sulle torrefazioni centenarie, i locali storici e le peculiari abitudini sociali stratificatesi nei secoli a Napoli.
Si è sostenuto che nella dicitura “caffè italiano” è intesa l’inclusione del caffè “napoletano”, mentre nella seconda espressione non è compresa l’estensione al resto del Paese.
Quale delle due poteva rappresentare il vero simbolo per l’Italia?
Alla fine nell’impossibilità di scegliere fra i due dossier, il ministero delle Politiche Agricole ha deciso di presentare entrambe alla commissione interministeriale che, dopo averle valutate, ha invitato i proponenti a unificare i dossier «per un’eventuale candidatura congiunta l’anno prossimo».
Così, un’occasione mancata per far conoscere fuori dell’Italia e nel mondo, ai possibili turisti, la qualità eccelsa del nostro caffè, da preferire sopra tutte le loro bevariole tradizionali.
Insomma, neanche sul Rito del Caffè Espresso questa Nazione ha dimostrato la capacità di unirsi e mettere tutti d’accordo.
Maura Sacher
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