Otello Fabris, prendendo come spunto l’anniversario di fondazione della Confraternita dei Canevaroli, racconta la storia della viticoltura bassanese dall’antichità ai giorni nostri: vigneti, vini, vignaioli, cantine, tradizioni.
Le fortune di una Nazione, di un popolo, di una città sono spesso legate alla storia di un fiume. Sulle sponde dei grandi fiumi (il Nilo, il Danubio, il Mississippi, il Tigri e l’Eufrate solo per citarne alcuni) sono sorte civiltà che grazie allo sfruttamento dell’acqua, bene primario, hanno orientato il corso degli eventi scatenando anche guerre sanguinose fin dall’antichità. Lo stesso discorso vale per i piccoli corsi d’acqua, la cui storia si intreccia con le vicende di una comunità. E’ il caso del fiume Brenta (rigorosamente pronunciato al femminile “la” Brenta) che nasce in Trentino (dai laghi di Levico e Caldonazzo, attraversa il Veneto e sfocia nel mare Adriatico all’altezza di Chioggia.
Lo racconta, prendendo come spunto l’anniversario di fondazione di una storica confraternita enogastronomica (la Compagnia dei Canevaroli della Terra di Bassano), Otello Fabris, storico di razza che, dopo la monumentale opera dedicata a Sua Maestà il Baccalà, regala agli accademici e agli amanti delle tradizioni contadine quest’opera omnia sui Canevaroli (238 pagine con contributi del cattedratico trentino prof. Attilio Scienza, del giornalista Giandomenico Cortese e dell’enologo Roberto Cipresso). “Caneva” e “Canevaroli” sono parole magiche che ci ricordano cantine, cantinieri, vignaioli, insomma quanto ruota attorno ad una bevanda sacra: il vino. Nel nostro caso le tradizioni agricole delle colline che si specchiano nelle acque del fiume Brenta in quel di Angarano, sponda destra del fiume, culla della viticoltura bassanese.
Infatti è proprio ad Angarano che nel 1626 furono pubblicati gli “Statuti” dei Consorti Canevaroli che disciplinavano la vendita del vino con relativi dazi che venivano riscossi da funzionari della Serenissima Repubblica di Venezia. Oggi la Compagnia dei Canevaroli si occupa e preoccupa della conservazione di queste antiche tradizioni con l’obiettivo di promuovere le eccellenze del territorio, in primis il vino e l’olio della Pedemontana, gli ortaggi di una terra quanto mai generosa (il famoso asparago di Bassano, il radicchio, il broccolo, i bisi, le ciliegie), i formaggi del Grappa, la sopressa. Ma anche il “genius loci” che trova la sua massima espressione nell’artigianato (ceramiche artistiche), nella pittura (Jacopo da Ponte) e nei tesori architettonici: il famoso Ponte degli Alpini progettato da Andrea Palladio, i palazzi nobiliari, le ville. La più imponente e sontuosa è sicuramente Villa Angarano Bianchi Michiel, patrimonio dell’Unesco.
E’ immersa in un paesaggio bucolico di grande suggestione tra i vigneti (8 ettari di recente reimpianto su una superficie complessiva di 50), le colline di Sant’Eusebio, la sponda destra del fiume Brenta e il dirimpettaio massiccio del Monte Grappa. Cinque sorelle (Carla, Giovanna, Anna, Maruzza, Isabella Bianchi Michiel) custodiscono con grande cura e passione questo meraviglioso patrimonio artistico culturale nel più rigoroso rispetto della storia, del territorio e delle tradizioni locali. Già nel Cinquecento il conte Giacomo Angarano del Sole è citato da Andrea Palladio che, dopo aver mostrato al conte il progetto della villa, cita i “rari et preciosissimi vini” dell’azienda e i “buonissimi pesci” che si pescavano copiosamente nelle limpide acque del fiume Brenta che ancor oggi, nel medesimo tratto, attirano frotte di pescatori. Il fiume è citato anche come l’antica autostrada fluviale percorsa nei due sensi (dal Trentino alla laguna di Venezia) con porti intermedi (Borgo Valsugana, Primolano, Cismon del Grappa, Valstagna, Solagna, Bassano) per il trasporto su zattere di legname, merci varie, tra cui ortaggi, baccalà (lo stoccafisso proveniente dalle isole norvegesi delle Lofoten) e botti di vino.
A proposito di vino, Otello Fabris dedica molte pagine alla storia della coltivazione della vite partendo dall’epoca della civiltà paleoveneta per arrivare ai giorni nostri. Riannodando il nastro della storia, va ricordato il ritrovamento di un magnifico vaso di bronzo del VII secolo a.C., la famosa situla Benvenuti, oggi custodita nel Museo Archeologico di Este: un signore dal naso rubicondo alza un calice brindando con altri due nerboruti personaggi. Negli statuti del 1259 (uno dei più antichi disciplinari di produzione) sono citati tre vitigni: la Pinella, la Durasiga (l’odierno Durello dei Lessini) e la Schiava con delle interessanti divagazioni sul metodo di coltivazione (le vigne erano “maritate” alle piante), sulla torchiatura, sui brentadori (addetti al trasporto delle brente che infilavano in un bastone e in coppia portavano a spalla), sui saltari, una sorta di guardie armate che sorvegliavano i vigneti. Un capitolo è dedicato anche al cosiddetto “vin piccolo”, diverso dal vino “fiore” della prima spremitura, ottenuto dalla torchiatura delle vinacce esauste (quelle ancora turgide venivano utilizzate per distillare la grappa) cui veniva aggiunta l’acqua (in Trentino è conosciuto come “Acquarol”).
E non poteva, Otello Fabris, non parlare del mitico “Clinton” e dei confratelli Fragolino, Bacò, Isabelle, Seibel, vini proibiti ottenuti da viti americane che, anziché essere usate come portainnesto quando la fillossera distrusse il patrimonio vitivinicolo europeo, spesso si piantavano tout court in attesa che crescessero le nuove barbatelle innestate. Molte varietà autoctone sono, comunque, sopravvissute al flagello di fine Ottocento, primi Novecento. Tra i vitigni a bacca bianca meritano di essere citati la Groppella Bianca, la Garganetta, la Senese, il Verdiso, il Tocai, il Vespaiolo e l’Uva della Madonna (così chiamata perché maturava il 15 settembre, festa dell’Addolorata). Quest’ultima è coltivata a Campese proprio nei luoghi scelti come dimora spirituale dal monaco benedettino e poeta macheronico Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai, vissuto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, che proprio qui, nella chiesa convento di Santa Croce è sepolto.
In suo onore nel 1991, a 500 anni dalla nascita, la Compagnia dei Canevaroli gli dedicò la vendemmia con grandi festeggiamenti. Tra gli spumanti, invece, va ricordata la Marzemina Bianca (o Sampagna), piacevole vino frizzante fermentato in bottiglia con il metodo ancestrale cui la cantina di Firmino Miotti di Breganze ha ridato un’aura di nobiltà. Tra i vitigni a bacca rossa riscopriamo la Pavana, la Barbera, la Negrara, la Caprara, la Corbinella, la Farinela, la Feltrina, la Marzemina Bastarda, il Raboso e il Ciliegiolo. Tutti vini schietti, qualcuno scontroso, ma sinceri e genuini nella loro naturalità, alla faccia di chi li considera di poco valore. E allora brindiamo anche per esorcizzare lo stramaledetto 2020, anno bisesto e funesto, in attesa di una vendemmia, quella del 2021, “effervescente” come si augurano i Canevaroli del fiume Brenta e del Monte Grappa. (GIUSEPPE CASAGRANDE)
Grazie per aver letto questo articolo...
Da 15 anni offriamo una informazione libera a difesa della filiera agricola e dei piccoli produttori e non ha mai avuto fondi pubblici. La pandemia Coronavirus coinvolge anche noi. Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati, in questo periodo, è semplicemente ridotta e non più in grado di sostenere le spese.
Per questo chiediamo ai lettori, speriamo, ci apprezzino, di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di lettori, può diventare Importante.
Puoi dare il tuo contributo con PayPal che trovi qui a fianco. Oppure puoi fare anche un bonifico a questo Iban IT 94E0301503200000006351299 intestato a Francesco Turri