Nell’Italia dei Presìdi Slow Food, della biodiversità e dei territori, è arrivato il grano saraceno della Valnerina, la valle del fiume Nera che, dalle sorgenti sui Monti Sibillini, scorre lungo le Marche, l’Umbria e il Lazio, fino ad immettersi nel Tevere.
In Valnerina la presenza del grano saraceno è attestata dal Medioevo e in alcuni scritti dell’epoca viene citata anche come pianta medicinale per le sue proprietà salutistiche che vanno dal basso contenuto lipidico all’alto valore biologico delle proteine, superiore anche ai legumi.
Un tempo diffuso nell’Appennino centrale, la sua coltivazione ha subito un inesorabile abbandono nei primi decenni del Novecento, a causa delle rese spesso non soddisfacenti e dell’importazione massiccia dall’estero.
Nonostante il nome, grano, ed i chicchi simili al frumento, la famiglia botanica è diversa (Poligonacee); inoltre è privo di glutine, quindi adatto alla alimentazione dei celiaci.
Fiorisce a fine maggio e dalla bottinatura dei suoi fiori bianchi e rosa si ottiene un miele molto particolare. La raccolta si svolge da fine agosto a settembre. In molti casi il grano saraceno è ancora falciato a mano e raccolto in covoni che viene fatto restare sul campo per 15-20 giorni, affinché si completi la maturazione.
Resiste moderatamente al freddo, ma ha bisogno di un apporto regolare di acqua. La pianta ha un ciclo colturale breve (circa 120 giorni), e non richiede né concimazioni né trattamenti chimici, quindi può essere classificato biologico.
Nell’ambito di un progetto dell’Università di Firenze e della Regione Umbria, è stato chiesto a tre produttori di riprendere la coltivazione per rivitalizzare un territorio e la sua biodiversità. Dei produttori coinvolti solo Daniele Giovannoli, dell’Azienda Agricola Tamorri Vera di Cascia, ha continuato a provare, anno dopo anno, finché ha trovato le modalità idonee per sperimentare la coltivazione di questi semi alle giuste altitudini.
«Siamo infatti sopra i 600 mt, ed i terreni sono davvero aridi» racconta Daniele, 39 anni, un’azienda biologica come quelle di una volta con 50 pecore e 22 mucche, le api e le galline e poi i campi di farro, lenticchie, ceci, cicerchia, orzo e grano. «Quello che si trova in commercio, consumato soprattutto nelle regioni del Nord, ha addirittura un prezzo inferiore al nostro costo di produzione. Noi facciamo un’essiccazione naturale, senza macchinari, e ci vogliono tempo ed energie».
Utilizzato in parte per l’alimentazione degli animali, viene venduto in chicchi per zuppe, risotti e insalate, o trasformato in farine per biscotti, pane, pizze e pasta, rigorosamente senza glutine.
Con il Presidio Slow Food si auspica di far conoscere più diffusamente il prodotto e la sua qualità e quindi ampliare le opportunità di vendita.
Oggi, l’area di produzione del grano saraceno comprende i Comuni di Norcia, Cascia, Preci, Poggiodomo, Cerreto di Spoleto, Sant’Anatolia di Narco, Sellano dell’Alta Valnerina, provincia di Perugia, nonché i Comuni di Ussita, Visso e Castelsantangelo sul Nera, in provincia di Macerata e Leonessa, in provincia di Rieti.
Maura Sacher
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