A Cheese 2019, di Bra, rassegna biennale dedicata ai formaggi e ai prodotti genuini del latte, Slow Food ha presentato la ricerca “Le denominazioni europee tra valori identitari e mercato”, in cui vengono studiati ed analizzati i Disciplinari delle 236 indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine europee del settore caseario.
Di tutti i Disciplinari sono stati valutati gli aspetti che stanno a monte della mera valutazione qualitativa organolettica, ed i risultati emersi non sono proprio positivi, anzi “sconfortanti”, secondo Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus.
Sono stati riscontrati Disciplinari disomogenei sugli elementi essenziali come la tipologia di latte, le razze animali, la qualità dell’allevamento e dell’alimentazione degli animali, la naturalità dei processi produttivi, l’artigianalità delle pratiche.
Solo il 39% dei Disciplinari obbliga a usare latte crudo, mentre il 44% non indica alcun tipo di trattamento, lasciando liberi i produttori. Il 15% dei Disciplinari impongono la pastorizzazione o termizzazione, pratiche che annullano l’attività microbica del latte, precludendo di fatto la possibilità di caratterizzare i formaggi con i sapori dei rispettivi pascoli. In effetti sono le peculiarità dei pascoli che rendono unico ogni prodotto latteo-caseario.
A fronte del 12% delle denominazioni che prevede siero o latte innesto prodotto in azienda, per aggiungere naturalmente una flora batterica autoctona al formaggio, il 53% delle produzioni ammette invece fermenti selezionati, contro cui Slow Food si batte da anni. Il restante 32% delle denominazioni tace sull’argomento, con il sospetto che i produttori lascino aperta la strada ai fermenti proposti dalle multinazionali.
Altro elemento che preoccupa Slow Food è il dato rispetto alle razze da cui deve provenire il latte: ben il 46% dei disciplinari non impone informazioni puntuali, mentre per Slow Food la razza (locale) rappresenta un elemento fondamentale.
«Il disciplinare di produzione è la carta di identità del formaggio, e l’impressione è che la legislazione, poco specifica, lasci molti margini ai consorzi e agli stati nelle decisioni, rendendo più facile interpretare il processo assecondando le esigenze di mercato», continua Sardo.
E conclude: «Slow Food chiede alle istituzioni europee di riprendere in mano la normativa che regola le denominazioni per rendere il regolamento più rigoroso su aspetti fondamentali per garantire un’autentica qualità e identità alle produzioni tradizionali. Tema questo affrontato anche dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nella lettera al Commissario designato all’agricoltura Janusz Wojciechowski. Chi si occupa di approvare in via definitiva le denominazioni non dovrebbe, quindi, limitarsi a controlli formali, ma ad analisi più restrittive e parametri più esigenti».
Se è vero che per la maggior parte dei cittadini europei acquistare un formaggio marchiato significa qualità, il sistema europeo delle denominazioni deve perseguire coerentemente e rigorosamente non solo la tutela dei marchi, ma anche la salvaguardia della qualità delle sue produzioni.
Visto che di Unione Europea si tratta e dall’Unione Europea nel 1992 è stato varato il regolamento unico sulla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari, che disciplina le denominazioni quali garanzia di qualità per i consumatori.
Maura Sacher
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