Tribuna

Il valore dei vini Italiani denigrato nei discount tedeschi e di mezza Europa

Si fa sempre un gran parlare di come migliorare la reputazione dei vini italiani in un percorso di crescita costante volto ad aumentarne il valore. Spesso si mettono in campo strategie complicate e farraginose, che non riescono ad arrivare al consumatore finale bucando di netto l’intento.

E già perché il consumatore alla fine risponde solo alla logica del gusto e della qualità, dove bisogna andare ad intervenire se si vogliono ottenere risultati significativi. Troppo spesso si dimentica che il percorso della passione inizia dal basso, ed è li che schiocca l’infatuazione per l’universo vino. Se in Italia mediamente negli ultimi anni, la Gdo vede aumentare la qualità, in Europa la situazione è ben più grave.

A dire il vero anche in Italia da parte di qualche noto discount, si assiste ancora ad iniziative commerciali che si avvalgono di altrettanto noti nomi per promozionare vini a dir poco discutibili, ma per fortuna sono solo casi isolati. Il problema non è di poco conto, almeno per le denominazioni più blasonate, quelle da cui anche il consumatore meno esperto si aspetta di più.

Il rischio che si corre facendo circolare all’estero certi vini è quello di violentare l’immaginario del consumatore. Si fornisce un modello falsato di denominazioni che nella realtà organolettica non esistono, o sono lontane parenti da quelle degustate con lo stesso nome. I numeri come sempre forniscono maggior chiarezza e allora meglio esaminare quelli dell’export.

Non quelli del mercato Usa il più solido per noi e dove in valore i vini Italiani si comportano abbastanza bene, o di quello Cinese che tutti ci auguriamo futura fonte di opportunità. Non parliamo nemmeno di quello inglese, in cui ogni tanto si da spazio anche ad articoli denigratori sugli immaginari pericoli del Prosecco, pur di favorire il consumo di birra in un’ottica di protezione economica per l’uscita dall’UE.

Parliamo invece ad esempio della Germania tra i paesi di riferimento più importanti per l’Italia, da cui importa secondo dati Istat la consistenza di 985 milioni di euro tra vini fermi e spumantizzati in bottiglia, oltre alla quota di vino sfuso. Grandi numeri da cui deriva quello meno entusiasmante e relativo al prezzo medio. Appena 2,13 euro/litro per gli spumanti e ancor meno per i vini fermi, che si fermano ad euro 1,62.

Il fatto che il grosso del mercato vinicolo tedesco avvenga attraverso le catene dei discount di certo non aiuta.  Nelle maggiori catene del settore si riscontra che mediamente un Prosecco vale 2,69 euro, mentre una bottiglia di Chianti raggiunge solamente i 2,19 euro. Se la Germania rappresenta la punta europea di questo fenomeno, non va meglio nel resto del vecchio mondo. Anche se in maniera ridotta paesi come Irlanda e Scozia scontano gli stessi problemi e, ai consumatori di questi paesi non è concesso di formare gradualmente il loro gusto sulle denominazioni, per poi passare ai vini di fascia più alta.

Lo scalino qualitativo tra l’offerta della Gdo e gli altri è troppo alto e gli assaggi selezionati tra gli scaffali, spesso non invogliano a superarlo. Un sorte di frode intellettuale, che nega a questi consumatori la possibilità di identificare almeno a grandi linee, i caratteri delle principali doc per poterle apprezzare. Sicuramente il problema non si presenta di facile soluzione, ma è li che bisogna intervenire. Il punto focale per aumentare l’export è sicuramente l’educazione del gusto legandolo al territorio.

Un po’ come il processo che gradualmente è avvenuto in Italia. Chiunque può ricordare fino a qualche anno fa, bottiglie di denominazioni importanti vendute a prezzi indecenti. Due o tre euro, che coprivano a malapena i costi di bottiglia, tappo, etichetta e catena commerciale. Fortunatamente la situazione è in continuo miglioramento ed anche se si trovano ancora bottiglie dai prezzi ingiustificabili, la maggior parte delle volte almeno non sono di aziende iscritte nelle doc più blasonate.

Forse è il caso di avviare lo stesso processo anche per i vini destinati a questi mercati europei, perché oltre al nome dell’Azienda questi veicolano il buon nome della viticultura Italiana, a cui spesso non fanno fare bella figura. Quasi un affronto per tutti quei produttori alla ricerca costante della qualità, che dimostrano di poterla offrire anche in bottiglie dal costo accessibile. Certo il vino deve essere democratico e alla portata di tutti, ma non si può permettere a certe bottiglie di legarsi alle denominazioni e ai territori più importanti del nostro paese.

Il compito di impedire questo sta ai Consorzi, agli Enti e alle Associazioni di settore, in prima linea in quella che è una delle risorse più importanti del Belpaese. Non bisogna giraci attorno ed è attraverso regole più restrittive che ci si può arrivare. Se si salta questo punto, la maggior parte delle azioni di marketing e comunicazione diventa inutile.  Come inutile risulta parlare di territorio, se poi non ci si sforza di darne un’idea almeno basilare nel bicchiere.

Si rischia solo di vestire una bottiglia di un qualsiasi vino, con l’abito blasonato di una doc che non è in grado di rappresentare. Vendere il vino significa vendere anche il valore di quel territorio. Se non c’è un riscontro di autenticità, è un gioco che non porta a costruire nulla di concreto nel lungo periodo. Questa dovrebbe essere la strategia principale per l’export italiano. Almeno così sembrerebbe anche dalle dichiarazioni di apertura del convegno UIV “La creazione del valore: identità reputazione e crescita del Made in Italy”, tenutasi recentemente al Castello di Nipozzano  dei Marchesi  Frescobaldi.

Tra i temi evidenziati il record di 5,9 miliardi per l’export 2017 e l’ottima tendenza anche per l’avvio di quest’anno, accanto però alla consapevolezza del grande lavoro da fare sul fronte dei valori. Questione decisiva per il futuro della viticultura italiana. Oltre al Vicepresidente UIV Lamberto Frescobaldi, i lavori hanno visto la partecipazione del presidente Ernesto Abbona, di Brunella Saccone dell’Agenzia Ice, Tiziana Sarnari di Ismea ed il professor Andrea Rea, del Wine Lab dell’Università Bocconi di Milano.

Insieme hanno affrontato con decisione il tema di come consolidare i mercati e costruirne di nuovi aumentando le opportunità. L’incontro ha espresso l’intento di concentrare gli sforzi per veicolare attraverso i vini l’identità del Made in Italy, un potenziale decisivo per aumentare i volumi dell’export e soprattutto il valore del prezzo medio. Obiettivo raggiungibile aumentando la collaborazione, proponendo strategie comuni e complementari tra marchi collettivi, brand e i principali consorzi Italiani, insieme alle doc più rappresentative. Con buona pace di Aldi, Lidl, Netto, Penny Market e le altre catene discount  che se ne faranno una ragione.

Bruno Fulco

 


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